Presentando la giornata di preghiera e digiuno per i missionari e le missionarie uccisi durante il loro servizio di evangelizzazione, non possiamo ignorare il dibattito sempre aperto attorno a questo evento: martiri o no? Già di san Massimiliano Kolbe, missionario in Giappone, ucciso dai nazisti nel campo di Auschwitz, ce lo si chiedeva. Secondo Giovanni Paolo II fu ucciso a causa della fede e quindi fu martire. La provocazione, da lasciare agli esperti, suggerisce a noi di rileggere la proposta della giornata alla luce dell’anno della fede. Chi si incammina per la via della fede cristiana non può ignorare che la parola di Gesù, che propone amore, condivisione e pace, si scontra comunque con i poteri dominanti e la mentalità prevalente. I primi secoli del cristianesimo furono soprattutto tempi di martirio per masse di credenti i cui nomi ignoriamo. Ricordare i missionari uccisi – insieme all’enorme numero di quanti per la fede hanno subito e subiscono persecuzione fino alla morte – è anche affermare che non c’è credere senza “dare la vita” come Gesù. L’anno della fede ci ripete che essa è autentica se si mostra all’esterno e si spende per gli altri, anche se c’è un prezzo da pagare.
Monsignor Gianni Cesena, direttore nazionale
“i credenti chiamati a rendere testimonianza in
circostanze difficili e pericolose non saranno
abbandonati ed indifesi”
(Papa Benedetto XVI, Angelus 26 dicembre 2012)