DALL’INVIDIA ALLA MAGNANIMITA’ DEL VOLTO DI DIO PADRE
ECCO UNA COMUNITA’ CHE VUOLE “CAMMINARE INSIEME”
Omelia dell’Arcivescovo Monsignor Mario Delpini
Fagnano Olona, Decennio della Comunità Pastorale, 1 settembre 2018
Dalla meschinità dell’invidia alla magnanimità della gratitudine e della gioia.
Infatti l’invidia è meschina. L’invidia è quella amarezza che si insinua quando quello che gli altri hanno lo sento come se fosse sottratto a me.
L’invidia è quel risentimento che mi intristisce quando ogni lode fatta al collega, al confratello, all’amico è considerata come un mancato riconoscimento per colui che è invidioso.
L’invidia è l’esasperazione che insinua sospetti e mormorazioni per ridimensionare e negare i meriti e la popolarità dell’altro. L’invidia è quell’atteggiamento che serpeggia nei discepoli e negli ammiratori di Giovanni come attesta il vangelo che abbiamo ascoltato. Quando vanno a dire: “Rabbì, colui che era con te dall’altra parte del Giordano, sta battezzando e tutti accorrono da lui”. Ecco, la crescita di popolarità di Gesù genera l’invidia dei discepoli di Giovanni.
L’invidia, questa meschinità, può essere anche una malattia che contagia la comunità per cui quell’evento che si celebra da una parte è sofferto come se fosse sottratto all’altra parte. Le attenzioni rivolte ad un gruppo fanno nascere nell’altro gruppo l’atteggiamento risentito di chi si sente trascurato.
E se il parroco abita da una parte, sbaglia, perché non abita dall’altra parte. L’invidia serpeggia tra le comunità. E Giovanni il Precursore che battezza con acqua e chiama alla conversione invita, nel vangelo che abbiamo ascoltato, a guarire dall’invidia, passando da questa meschinità alla magnanimità dell’amico dello sposo che si rallegra per la festa di nozze e dice: “Proprio ora la mia gioia è piena poiché tutti vanno da Gesù”.
La magnanimità che rende possibile la pienezza della gioia ha la sua radice nell’ascolto della voce dello sposo, nella docilità alla Parola che riesce a vincere la meschinità, a vincere l’amor proprio, a vincere il complesso del confronto.
La magnanimità è quell’atteggiamento che è possibile se la vita è considerata una missione che ha il suo compimento, nella comunione con Dio. E la vita non è una carriera che ha il suo compimento nel successo dell’io.
Il discepolo e la comunità dei discepoli dunque devono chiedere la grazia di questo cammino verso la magnanimità che si rallegra del bene, anche di quel bene che non ho fatto io, anche di quel bene che non è fatto tra di noi. Si rallegra del bene e ringrazia.
Ecco, dieci anni di una Comunità pastorale possono essere quel momento in cui si celebra questo passaggio dalla fatica degli inizi in cui l’essere insieme può essere stato pensato come un perderci, alla gratitudine e alla gioia perché si constata con l’essere insieme. Il rallegrarsi a vicenda per il bene che si fa, porta alla pienezza della gioia.
Dall’invidia alla gratitudine, alla gioia.
E poi dallo spavento di fronte all’enigma del divino alla pace della prossimità di Dio che è Padre.
Il divino, questa idea un po’ vaga che tutti più o meno hanno anche se non credono precisamente in niente, comunque il divino si presenta alla fantasia dei popoli come un enigma, un punto di domanda che fa paura.
Nella lettura che abbiamo ascoltato è registrata da descrizione drammatica dell’esperienza religiosa sul monte di Dio, al tempo di Mosè il quale dichiara: “Ho paura e tremo”. Uomini e donne di ogni tempo e di ogni luogo sono provocati dal pensiero di Dio, sono accompagnati da un sospetto che talora spaventa sino al punto da cercare di non pensarci. Come gli ebrei.
Dice la lettura che abbiamo ascoltato: “Scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola”, non potevano infatti sopportare l’ordine dato da Dio, lo spettacolo e la realtà erano terrificanti.
La fantasia umana si immagina un Dio che fa paura, un Dio minaccioso, un Dio suscettibile e imprevedibile nei suoi favori e nei suoi castighi. Dunque questa può essere la situazione e la mentalità di chi pensa al divino come ad un enigma che spaventa.
Ma la Chiesa, noi cristiani, continuando la missione apostolica, dobbiamo ancora annunciare: “Guardatevi bene dal rifiutare colui che parla, voi infatti vi siete accostati a Gesù”. La comunità cristiana cammina nella storia come un popolo di pellegrini perché risuoni in tutti i luoghi e in tutti i tempi la parola del Vangelo. E la Parola del Vangelo rivela che Dio non è l’enigma incomprensibile che spaventa, ma è il Padre misericordioso che vuole salvare.
In fondo, tutto quello che la Chiesa fa, tutto quello che la Chiesa dice, tutto quello che le comunità cristiane organizzano, tutte le strutture che la Chiesa ha costituito e gestisce, tutto deve essere a servizio della missione della Chiesa che deve annunciare: “il Regno di Dio è vicino”.
Il Regno è la manifestazione che Dio è Padre, un Padre cha ama i suoi figli e manda il Figlio perché tutti i suoi figli siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
Ecco quello che può essere un punto di verifica della storia di questi dieci anni. Siamo riusciti ad annunciare il volto di Dio che è Padre?
A sconfiggere i pregiudizi che identificano il divino in un enigma che spaventa? A dare la consolazione a tutti che viene dalla certezza che Dio ci ama e ci vuol salvare? Ecco perché esiste una comunità cristiana. Ecco perché ci sono le attività, le iniziative, i calendari, le occasioni, gli eventi, tutto per questo perché si conosca che Dio è Padre.
In conclusione, si deve dire che si deve passare dalla vita come condanna a morte, alla vita come dono di vita eterna.
Uomini e donne del nostro tempo sembrano intendere la vita come la condanna a morte. Ogni vita che nasce è destinata a finire nella morte questa sembra la verità più indiscutibile del nostro tempo. In questa prospettiva deprimente è piuttosto diffuso l’atteggiamento della distrazione per non pensarci, per non disperare bisogna godere di quello che si può, bisogna approfittare delle occasioni che si offrono per fare qualcosa di buono per sé e per gli altri, ma in fondo tutto è insensato perché tutto, secondo il pensiero corrente, finisce nel niente.
È inutile porre le domande sul senso del tutto e sui fondamenti, il pensiero si smarrisce di fronte a queste domande, la parola si confonde e la prospettiva indiscutibile è il finire di tutti e di tutto nella terra da cui tutto sorge.
“Chi viene dalla terra – dice Gesù – appartiene alla terra e parla secondo la terra”, parla quindi della precarietà: tutto quello che inizia è destinato a finire.
Questo sembra il distillato della sapienza umana. Ma la voce che viene dall’altro, la voce di Colui che ha visto e udito di cui parla il Vangelo, Colui che il Padre ha mandato perché dice le parole di Dio, rivela che Dio, senza misura, dà lo Spirito.
Nella vita e nella Parola di Gesù è dunque offerto una rivelazione e una promessa: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna”. I credenti vivono quindi la vita non come un percorso inevitabilmente destinato alla morte, ma come un pellegrinaggio verso la vita eterna. Anzi, i credenti già ora sperimentano la vita eterna nella forma della fede e sono in cammino verso il compimento. La comunità dei discepoli celebra dunque questi Santi Misteri e legge le Sacre Scritture perché a tutti sia accessibile la promessa e per tutti sia possibile la speranza. Siamo chiamati alla vita eterna e non destinati alla morte.
Ecco perché esiste la Chiesa, ecco perché qui c’è una comunità viva che si impegna, che si domanda come deve fare a “correre insieme” secondo lo slogan che è stato scelto, perché ha una missione da compiere, ha una verità da contemplare.
Ecco come si può verificare la bontà del cammino compiuto in questi dieci anni. Se siamo passati dalla meschinità dell’invidia alla magnanimità della gratitudine e della gioia.
Se abbiamo imparato a conoscere e a testimoniare il volto di Dio come Padre per sconfiggere il pregiudizio che immagina Dio come un enigma spaventoso.
Se siamo riusciti a testimoniare che noi non siamo nati per morire, ma per credere alla promessa che siamo chiamati alla vita eterna.